Chi pagherà il costo della pandemia?
La pandemia di covid 19 ha ha provocato morti e distrutto famiglie in tutto il mondo. Ha cambiato il nostro modo di vivere ed ha evidenziato le criticità della nostra società che l’abitudine ed il racconto ottimista del marketing tenevano nascosto.
Il cambiamento delle abitudini, in atto mantenuto dalle stringerti regole per limitare i contagi, lascerà delle tracce nella nostra memoria collettiva. Le più durature saranno quelle meno discusse.
I cambiamenti di cui parliamo però non sono gli unici: col covid la nostra società si è impoverito. Però non tutta: alcune fasce. Alcune categorie invece si sono arricchite, e di tanto.
Parlare di questo tema potrebbe sembrare inopportuno. In effetti i media ci parlano quasi esclusivamente della tragedia della malattia. Però le sofferenze economiche traspaiono chiaramente dalle proteste delle categorie danneggiate e, in modo più subdolo, danno forza a quella parte del racconto pubblico che nutre le teorie negazioniste.
I negazionisti vogliono credere che il covid sia una bolla mediatica, sia per paura dei suoi effetti concreti, sia per la voglia di continuare la propria vita come se la pandemia non esistesse. Dire che il covid è un’invenzione serve a tenere aperto il negozio o il ristorante, serve a continuare ad invitare i clienti a frequentarlo. Serve a chi ha voglia di continuare a frequentare la discoteca.
L’aspetto economico è importantissimo. E andrebbe affrontato e discusso e magari negoziato con tutte le categorie in modo diffuso, razionale ed inclusivo.
Ma parlando di economia ci si scontra con una domanda pesante: chi pagherà il covid?
La questione è edulcorata dal forte ricorso al debito pubblico e non potrebbe essere altrimenti considerate le tensioni sociali in atto.
In questo contesto sono da inquadrare, ognuna col proprio diverso peso politico, le richieste di Confindustria, ma anche le richieste dei dipendenti pubblici. Con pesi politici diversi, e conseguenti diverse risposte, sia dal governo sia dall’opinione pubblica.
Di fatto è una questione di cultura dominante: le imprese chiedono – ed ottengono – aiuti ad esempio per l’innovazione, mentre i dipendenti pubblici chiedono nuove assunzioni (hanno un’età media più che attempata), chiedono risorse per i propri contratti – (alcuni bloccati da anni), richiedono sicurezza sul lavoro (anche dal Covid): per cercare di ottenere attenzione hanno dovuto indire una giornata di sciopero, che viene subito tacciata di irresponsabilità, dato il momento.
Ma chi sono i dipendenti pubblici? Tra questi ci sono gli uomini e le donne della sanità, quelli che rischiano la pelle nei reparti ospedalieri, che abbiamo definito eroi, che, esausti, abbiamo fatto aiutare da giovani precari e da vecchi colleghi andati in pensione; ci stanno gli impiegati degli uffici che reggono la macchina pubblica dello Stato, delle Regioni e dei comuni; ci stanno le forze dell’ordine ed i vigili del fuoco.
Detto per inciso, tra i dipendenti pubblici ci sono anche i genitori di tutti i precari “difesi” dai commentatori neoliberali. Perché le “riforme”, negli ultimi trent’anni, mentre hanno ridotto i salari reali del pubblico impiego, hanno precarizzato il lavoro dipendente e ridotto la qualità e la quantità dei servizi pubblici, spingendo i dipendenti pubblici a destinare i propri redditi poveri ma “sicuri” a sostenere, il “welfare familiare”.
Tutti questi hanno una colpa nel “detto non detto” degli articoli di giornale: hanno un reddito fisso che hanno mantenuto durante la crisi pandemica e questo li rende più invisi, perché più raggiungibili di coloro che con questa crisi si sono ulteriormente arricchiti: quelli che hanno speculato sulle mascherine e sui guanti di lattice, quelli che hanno aumentato i fatturati dell’E-commerce; più invisi di Assodelivery che ha guadagnato sul lavoro dei riders. Più invisi di chi questa estate ha aperto le discoteche quando gli suggerivano di chiuderle e di chi vuole aprire gli impianti per gli sport invernali senza pensare più di tanto alle conseguenze.
Intanto il covid se Dio vuole, passerà. I contratti non rinnovati, gli statali in gran parte ultracinquantenni e le carenze nella prevenzione sanitaria negli uffici e nelle scuole rimarranno, con la benedizione della Ministra Dadone e dei commentatori illuminati alcuni tra i quali – penso a Boeri – hanno redditi e prospettive che uno “statale” non riesce neanche a sognare.
Abbiamo proprio bisogno di voltare pagina, ma non per tornare a prima della pandemia: dobbiamo invece andare avanti e fare tesoro di questa terribile esperienza. Questa società, così ingiusta e diseguale, è incredibilmente fragile. Abbiamo bisogno di irrobustirla e la stradapassa attraverso la rimozione delle diseguaglianze eccessive e del darwinismo sociale. Se succederà o meno si vedrà anche da dove saranno recuperati i costi per la ripresa, oggi anticipati con l’incremento di debito.
